Storia di una lunga pazzia

infanzia

L’ascensore si apre:
mi ha portato da te
con un mazzo di violette africane
strette nalla mano sudata.
Un’ora dopo svanisco in un abisso
profondo ventitré ore.

Sedato, fragile
friabile
cammini a lunghi passi
per i corridoi
tra giovani psichiatri eleganti
nel loro verde smeraldo
mentre ragazze
che tessono tappeti tutto il giorno
li disfano di notte.
Gli obesi si smarriscono
in se stessi.
Ora canticchi
poi dici di odiarmi.
Vorrei scuotere la tua mente
per farti ritrovare lo specchio frantumato
dei tuoi occhi.
Ricordi come avvenne?
Stavi alla finestra
parlavi di volare.
Le tue mani mi volarono
alla gola.
Ma non erano uccelli, tracciavano cerchi
intorno alle tue idee
e le tue idee a volte
erano parabole.
Quando arrivarono
trovarono
gambe e braccia
sparsi per terra
come balocchi rotti.
Tutti e due piangevamo.

Ora tu permani abbarbicato
nella cantina della mia mente
tenace come un’astrazione
una sorta di idea confusa.

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