
“Suspiria” che i condannati emettevano nel mondo libero perché una volta giudicati rei nel regno dei Dogi non sarebbero tornati mai più indietro.
Mi hanno catturato stamani all’alba, quando Venezia è tutta fresca di colori rosa e ambra e ogni lembo d’acqua scintilla al primo sole.
Da un pezzo vagabondavo senza meta per le viuzze con in bocca un sapore di tenebra fino a che non udii le campane suonare la terza, l’inizio della giornata lavorativa. Allora mi diressi verso la laguna, alla riva Ca’ de Dio ed entrai nel magazzino della compagnia di mercanti Grandolin per vedere se mi riusciva di imbarcarmi su una loro nave in partenza per l’Oriente.
Ma lì, ad aspettarmi, trovai due Gastaldi in uniforme della Quarantia e capii che ero finito, Doretta mi aveva tradito. Per la libertà mi ero battuto e in suo nome ora sarei morto, il regno del Doge Tiepolo in questa Venezia dell’anno del Signore 1270 non ammette ritorni.
Immobilizzato dai due sgherri attraversai il ponte della Paglia e prima del Palazzo Ducale, alla Porta del Grano, voltammo nella Torresella, la prigione di Venezia, chiamata dai condannati con lo stesso nome attribuito dai nostri antenati alla voragine di fuoco, prima che la cristianità insegnasse loro a chiamarla inferno.
Tutti la conoscono come “Vulcano”.
E così osservando per l’ultima volta i colori luminosi, rosa e ambra, del mattino sospirai al cielo: il mio saluto al mondo libero prima di inoltrarmi nell’oscurità del non ritorno.
Gli otto Signori della Notte, giudici di un tribunale del terrore, seduti dietro un lungo tavolo, vestiti di nero, cominciarono a pormi domande inutili ché già avevano deciso la mia sorte .
Restai muto, anche quando le due guardie mi massacrarono di botte e il dolore delle costole fratturate mi toglieva il respiro.
All’improvviso mi ritrovai la bocca piena di sangue in un convulso di tosse e capii che non solo di frattuta si trattava. Un calcio nel basso ventre mi fece desiderare di essere morto.Volevano dei nomi ripetendomi ossessivamente tra le nebbie di disumane sofferenze che a ventanni era troppo presto per morire. “Troppo presto per tutto” …mormorai prima di cadere in un nulla misericordioso.
Non so quanto tempo è passato: mi sono risvegliato in una”orba”, una cella grande appena quanto basta per contenere un uomo.
Facile appurarlo, ho allungato un braccio e ho tentato di alzarmi perché anche questo orrore…no, questo no…
Un cubicolo di pietra completamente nudo, privo di qualsiasi apertura per far entare aria o luce.
Sto soffocando nel mio sangue e nel laido fetore che satura il luogo.
Tocco una parete: brulica di qualche cosa di vivo e viscido, grido.
Un braccio mi scivola verso terra dove con le dita sfioro una strato colloso e schifoso …
ma la mano resta lì.
Tremo , ho sete, vorrei avere vicino mia madre, madre…sof…fo…cooooo…
Così nella notte del 28 Aprile dell’anno del signore 1270 sotto il Dogato di Lorenzo Tiepolo rese l’anima a Dio Matteo Trevisan, di anni venti, congiurato.

ci sono fatti che sai narrare in un modo solo tuo…sei inarrivabile…ciaooooo
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grazie , sai qaunti matteo trevisan ci sono stati nei secoli? Pensa ai desparecidos argentini…
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Mi sono sentita prigioniera di quel cunicolo, mi sembrava di soffocare … credo di immedesimarmi troppo, ma tu sai raccontare così bene che è inevitabile. 🙂
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grazie….abbraccio
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