Una storia di treno: la vedova e il soldato- prima parte

da Liberaeva-Eric Bowman:intimacy
da Liberaeva-Eric Bowman:intimacy

Sicilia, Luglio 2008, caldo apocalittico, sono le tre del pomeriggio sull’Intercity Conca d’Oro Messina-Siracusa.
L’impianto dell’aria condizionata funziona male con il risultato di alternare sudate orrende a geli artici.
Ho il portatile aperto ma non riesco a scrivere nulla: così mi perdo a osservare la donna che mi siede di fronte e non capisco propio come faccia con questo caldo a star sepolta in tutto quel nero.
E’ vestita a lutto stretto, calze comprese, e questo, anche per la Sicilia, mi pare fuori dal tempo.
Sui 45 anni, più o meno, è grassoccia, ha la fronte bassa e i capelli ricciuti tenuti all’indietro da un cerchietto simil-tartaruga di quelli che si usavano una volta.
Il vestito pare una cappina, abbottonato davanti, scollatura pudica, unico gioiello un pesante crocefisso d’oro che sobbalza ai movimenti del treno.
Insomma, una donnetta insignificante.
Se ne sta lì, a guardar fissa fuori, le mani screpolate raccolte in grembo.
Gli altri occupanti sono un prete (che legge attentamente il giornale), un donnone, che divora un enorme panino seduta accanto al reverendo e due uomini che da un bel pezzo sono incollati alle mie gambe nude e alla mia scollatura: certo il mio corto abituccio marinaro anticaldo da turista contrasta visibilmente con il look funereo della vedova.
A un certo punto arriva un militare, un ufficiale, che chiede se può occupare l’unico posto libero vicino alla donna in nero.
Lo chiede a me.
-Affermativo-rispondo sorridendo.
E lui gentilmenete si sistema tra la vedova e la cicciona.
A questo punto chiudo gli occhi e mi appoggio all’indietro, abbandonandomi a una fantasia che improvvisamente illumina la mia noia.
Mi è tornato alla mente un pezzo di “Paura di volare” della Jong in cui la scrittrice americana parla della “scopata senza cerniera”, ambientando la sua storia in un Meridione Italico con personaggi da Operetta.
-Curiosità:dopo aver scritto questo racconto son venuta a sapere che la Jong si è rifatta a un vecchissimo film con un Manfredi praticamente in fasce in cui la sceneggiatura pare fosse addirittura di Enzo Siciliano-
Così improvvisamente decido di girare, con la fantasia, un corto con la mia regia.

Azione:

Siamo nella Sicilia degli anni 70, il treno è uno squinternato accellerato che arranca per la linea Caltanissetta –Agrigento in un Luglio arroventato.
Dal finestrino aperto foglie di ulivi ogni tanto entrano nella carrozza, fuori il paesaggio è arso da far pena.
Le cicale cantano a squarciagola, i paesini bianchi e rosa disseminati quà e là paiono mummificati nella calura.
L’ondeggiare del treno e lo sferragliare ritmico sono ipnotici.
Vicino al finestrino sta seduta la vedova, lo sguardo perso nel polveroso paesaggio dove, oltre le distese di ulivi,rari eucalipti assetati sbracciati nel cielo biancastro adornano pigre groppe di colline avvampanti sotto il sole di Luglio.
La mia protagonista è una donna ancora giovane, matura nei fianchi e nel seno rigoglioso.
Ha un viso bello, dai tratti decisi, severo, le sopracciglia folte, gli occhi di liquida ossidiana, i capelli nerissimi e lucida stretti in una treccia arrotolata sulla nuca.
Indossa un vestito nero che pare di seta, aderente che tende a scivolare oltre le ginocchia, mostrando un paio di gambe non lunghe, forse un poco pesanti di caviglia, ma in complesso belle.
L’abito ha una strana scollatura a trapezio, anni 50, che copre con fatica il seno generoso.
La croce d’oro rimbalza a ogni sobbalzo del treno su quella stoffa morbida che come un guscio protegge i due bianchi globi di carne.
Tiene le mani in grembo, e le tormenta spesso, ruotando le dita intorno alla fede nuziale, quando non è impegnata ad aggiustarsi la gonna.
Ogni tanto con un fazzolettino bianco si asciuga le gocce di sudore che le imperlano il viso.
Ha lo sguardo fisso fuori dal finestrino, e dentro a quegli occhi c’è il vuoto assoluto.
Nessuna emozione.
Ora vediamo gli altri personaggi.
Vicino alla porta scorrevole, dalla parte della vedova, siede una cicciona anziana, sudatissima, le gambe violacee segnate di vene varicose, in grembo un cesto coperto da un fazzolettone blù.
A un certo punto la stoffa si muove e dal bordo spunta la testa coloratissima e vigorosa di un bel gallo che la donna svelta si affretta a far rientrare.
Di fronte a lei c’è un prete, un fazzoletto bianco intorno al collo per limitare i danni del sudore, la tonaca poco pulita un poco slacciata, rosso in viso per il caldo, e non solo per quello.
Ogni tanto lancia occhiate furtive alla vedova per poi immergere nuovamente il naso in un consunto breviario.
Di fronte alla mia protagonista sono seduti una mamma con un ragazzino, che si muove in continuazione, aprendo e chiudendo la porta scorrevole dello scompartimento.
E la madre come una litania, a voce alta, ripete:
-Pippuzzu, t’agghie rittu, vieni accà e assittiti o cantu di mia, nun me lu fari ripetiri navutra vota, prima ca ti dugnu na naticata… Parrinu (parroco) lo dovete scusare, picciriddu iè,
mi fa dispirari; per favuri ciù dissi vossia ca se fa lu malu lu Signuri lu manna a lu infiernu-
Ma il rimprovero è inutile, il prete sospira e non parla, par che dica -con questo caldo è fatica anche parlare- e il bimbo ricomincia da capo.

Fine prima parte a dopo il seguito

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